Partiamo da una definizione
E’ uno stato emotivo universale, che non sarebbe di per sé inadeguato provare, è riscontrabile infatti in molte altre specie oltre a quella umana, e soprattutto nei mammiferi, da quelli filogeneticamente più antichi, come i Roditori, ai Primati più recenti e vicini all’Homo sapiens sapiens.
Consiste in uno stato di attivazione indotto nel sistema nervoso da stimoli ambientali che richiedono al nostro organismo una serie di modificazioni ai fini dell’adattamento, per mantenere un’omeostati e quindi un’integrità di funzionamento.
Esiste l’ansia di stato, ovvero un’ansia transitoria, uno stato ansioso che si attiva in risposta a specifiche condizioni o situazioni, giudicate soggettivamente pericolose. Può essere funzionale a superare lo stress, oppure può essere molto intensa e raggiungere un grado patologico.
Il fatto che un individuo viva un’ansia di stato non patologica o lievemente patologica (nel senso che il suo funzionamento sociale e lavorativo non viene compromesso e nel complesso è ben adattato al suo ambiente) non vuol dire che egli si senta bene così e non voglia cambiare questo lato di sé. L’obiettivo del lavoro psicologico sarà in questo caso il raggiungimento della capacità di gestire meglio le situazioni stressanti e quindi godere di un maggiore benessere psico-fisico.
Diversa è invece l’ansia di tratto, che si riferisce ad un tratto di personalità del soggetto, che quindi ha la tendenza a rispondere con ansia a tutte quelle situazioni che possono contenere un pericolo, oggettivo o soggettivo che sia. E’ propria di quelle persone che vivono nell’ansia, si allarmano per nulla, sono apprensive, tanto da considerarlo un loro normale modo di essere. Molte di queste persone sono così abituate ad essere ansiose da non accorgersene nemmeno.
Tuttavia, se diventa rigida e non adattiva, è con molta probabilità un tratto patologico di personalità e causa una significativa compromissione del funzionamento sociale o lavorativo, oppure una sofferenza soggettiva.
Quando l’ansia rientra in un tratto di personalità, significa che lo sviluppo della personalità di quel soggetto è stato accompagnato da un costante livello di ansia patologica e quindi la persona si caratterizzerà per sentimenti persistenti e pervasivi di terrore e apprensione, per la convinzione di essere socialmente inetta, poco attraente e inferiore, per un’eccessiva sensibilità alle critiche e al rifiuto da parte degli altri, per la mancanza di volontà nell’intraprendere nuove relazioni, per una restrizione dello stile di vita a causa del bisogno di sicurezza, per l’evitamento di quelle situazioni sociali che possono provocare irritazione (ICD – 10, Organizzazione mondiale della sanità, 1992).
Ma come si sviluppa una personalità ansiosa?
Un punto di vista psicodinamico-evoluzionistico. Un punto di vista diverso.
Un bambino, come ogni mammifero e ogni uccello, quando nasce, è inetto, non sa niente del mondo in cui è appena giunto, non ne conosce i pericoli, ma ha una sola grande specializzazione, quella di legarsi al genitore che lo assisterà per il tempo della crescita. Durante questo periodo il bambino non trae informazioni sul suo stato di pericolo dall’ambiente, ma dal comportamento genitoriale. Ogni volta che il segnale materno si contrae o scompare, anche solo per poche decine di secondi, il piccolo lo interpreta come un rischio di morte e reagisce – neurologicamente ed endocrinologicamente – emettendo il richiamo del grido e del pianto e irrorando di cortisolo i propri vasi. Dunque vive uno stato d’ansia acuto!
Secondo la teoria del Deficit Parentale (Vitale, 2008), il bambino che, nel corso della sua primissima infanzia (primi tre anni di vita), è stato più volte esposto a situazioni omissive – carenza di segnali sensoriali parentali che gli fanno presagire di essere in pericolo perché privo di protezioni: vivere in un clima omissivo, dove mamma c’è ma non c’è, non viene a prendermi, mi lascia piangere, non gioca con me, non mi tiene molto tempo di braccio e se mi tiene non mi guarda negli occhi (magari sta di testa sul suo smartphone a curiosare su fb!), mi parcheggia nel box finché non ha pulito tutta casa – registrerà nella sua memoria emotiva elevati livelli di angoscia.
Il cervello di un bambino non ragiona come quello di un adulto, ma come quello di un cucciolo di mammifero: trovarsi solo, senza avvertire alcun segnale sensoriale materno o avvertirlo lontano, indica per lui il rischio di un pericolo, quello di predazione, come quello che vive una scimmietta nella foresta.
L’ansia è un segnale che denuncia la presenza di un pericolo. Il bambino che cresce nel pericolo – a causa dell’omissione di segnali di protezione o della presenza di segnali di minaccia – sperimenta più volte nella sua infanzia, nei suoi anni, nei suoi giorni e più volte durante il giorno la risposta d’ansia, che diventa cronica! La sua memoria arcaica, o emotiva, o procedurale (ossia il sistema limbico, come in tutti i mammiferi e gli uccelli) imprime in sé il vissuto di trovarsi in pericolo, di non essere abbastanza protetto, di essere solo, a rischio di morte. E’ questo ciò che passa nel cervello di un bambino piccolo.
A partire da questo punto di vista, si può vedere come i disturbi d’ansia siano innescati proprio da situazioni in cui vi è un rischio di predazione, in base a quanto impresso nella memoria emotiva, o memoria arcaica. Possiamo infatti vivere l’ansia in queste situazioni:
- mancanza di compagnia: questa situazione riaccende la solitudine impressa nella memoria emotiva e suscita la paura di essere predati per mancanza di protezione
- spazi aperti: nella nostra memoria arcaica gli spazi aperti sono più rischiosi perché si può essere facilmente intercettati da un predatore abile e veloce e, se non si è ricevuta sufficiente protezione nel periodo critico, gli spazi aperti rappresenteranno una minaccia, da cui l’agorafobia (paura degli spazi aperti)
- affollamento: in posti molto affollati il predatore potrebbe sopraggiungere da qualsiasi punto, perché data la mole di gente, la nostra vista non ha possibilità di intercettarlo subito, da cui il panico.
- luoghi chiusi: mancando la via di fuga, si è in trappola laddove dovesse arrivare un predatore feroce, da cui la claustrofobia.
Anche se il piccolo di uomo non ha un reale rischio di predazione (in casa non ci sono animali predatori pronti ad azzannarlo), lo vive ugualmente, perché il suo cervello e in particolare la parte più profonda di esso – il sistema limbico – sono identici a quello di una scimmietta e sono predisposti a captare gli stessi pericoli. Dunque la nostra memoria emotiva registra la sensazione di panico dei primi periodi di vita e la trattiene fino all’età aulta, se è stata lungamente esposta a minaccia per omissione di segnale (a differenza delle madri umane, però, le madri scimmia non lasciano incustoditi i propri piccoli, li portano attaccati alla pelliccia e dunque le scimmiette quasi mai vivono attacchi di panico da adulte! Il maltrattamento emotivo esiste solo nella specie umana!).
Ovviamente la madre umana non è solo “omissiva”, ma è anche affettuosa, ed è esattamente questa ambivalenza a fertilizzare il terreno nevrotico: “il soggetto ansioso è stato rosolato nell’alternanza di abbandoni (omissioni) e rincuoramenti temporanei, i quali hanno avuto l’effetto di tenere viva nel bambino la speranza di poter trovare conforto rispetto alla minaccia”, evocata dalla madre stessa (Vitale, 2008, pag. 48). Una madre allo stesso tempo minacciosa e protettiva è il mix perfetto per generare quell’insicurezza tipica dell’ansioso!
BIBLIOGRAFIA
MINISTERO DELLA SANITA’ – Dipartimento per l’ordinamento sanitario, la ricerca e l’organizzazione (2000), Classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari correlati, 10ª revisione – ICD-10. Organizzazione mondiale della Sanità, Ginevra
SIMS A., OYEBODE F. (2009), Introduzione alla psicopatologia descrittiva – IV edizione. Raffaello Cortina, Milano
VITALE A. (2008), Dizionario di Psicologia del Deficit materno. Aracne Editrice, Roma
VITALE A. (2008), Il Deficit Parentale. Origine e cura della nevrosi. Aracne Editrice, Roma