«Ho bisogno di una pausa di riflessione», «Tu, meriti di meglio», «Ti lascio perché ti amo troppo»… queste sono solo alcune delle tante frasi (anche se certamente tra le più gettonate) che vengono da sempre utilizzate per chiudere una storia affettiva. Diciamocelo subito… si tratta di “scuse”, o forse del tentativo di non rendere doloroso un processo che per definizione lo è. La chiusura di un legame affettivo, infatti, è sempre un’esperienza difficile: lasciare o essere lasciati porta in ogni caso sofferenza. La separazione comporta una perdita, a cui segue un bruttissimo senso di vuoto.
Nell’amore il desiderio è quello di avere una garanzia di durevolezza eterna. Una storia finita suscita tristezza perché ci costringe a rinunciare al progetto su cui avevamo investito con ottimismo. La consapevolezza che la persona con la quale volevamo inizialmente stare insieme non condivide più questo progetto di vita comune, ci colpisce profondamente. Il pericolo si annida proprio nei ricordi di esperienze piacevoli e di promesse felici, che ritornano prepotentemente alla mente una volta finita la storia, ingigantendo il dolore, che può essere così forte e inconsolabile da provocare la depressione.
Secondo Sigmund Freud «Non siamo mai così indifesi di fronte alla sofferenza come quando amiamo, mai così disperatamente infelici, come quando abbiamo perso l’oggetto del nostro amore oppure il suo amore».
Ed ecco che, per alleviare il dolore del lasciato, colui che lascia, che decide di chiudere, prova ad “indorare la pillola” non affrontando direttamente la questione legata al cambiamento del sentimento e ai mutati bisogni relazionali. Usare delle scuse, se da un lato non espone direttamente al dolore del partner che stiamo lasciando, ha la grave controindicazione della poca chiarezza che possono alimentare false speranze ed aspettative.
Per ogni storia finita è invece importante attivare un percorso di accettazione che potrà essere più o meno lungo e che richiederà l’elaborazione della perdita, per poter integrare il cambiamento ed andare avanti. Per far questo occorre puntare sulla chiarezza, sul venire allo scoperto con se stessi, accettando anche le parti “cattive” di sé, per prendere coscienza delle responsabilità e dei bisogni personali che hanno condotto al desiderio di chiusura.
La separazione, infatti, è solo la fine di un lungo processo di cambiamento che ha coinvolto entrambi i partner. Le persone cambiano, così come le loro esigenze, che possono allontanarsi fino a raggiungere posizioni diametralmente opposte.
Elaborare la perdita vuol dire anche confrontarsi con il dolore, “stare nel dolore”, senza rifuggirlo, altrimenti non si dà vera fine e neanche una vera rinascita. Del resto… il dolore della separazione è come avere l’influenza: ne soffriamo, ma esso aumenta le nostre capacità di guarigione! Solo quando avremo realmente elaborato la perdita, potremmo sentire di essere guariti ed aprirci con curiosità al nuovo, all’inatteso, al non sperimentato, verso una nuova fase esistenziale.
“Tutto ciò che non mi uccide, mi giova” ( Nieztsche)